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Letizia Destefanis

Marina Abramović la pioniera della performance art

Si è conclusa da circa due mesi l’ultima mostra di Marina Abramov la pioniera della performance art, che al momento è l’unica donna ad aver varcato le porte della Royal Academy of Arts di Londra.

Marina nasce a Belgrado, in Serbia, nel 1946 da due genitori partigiani, combattenti nella seconda guerra mondiale. La madre negli anni sessanta diventa la curatrice del Museo della Rivoluzione e Arte di Belgrado e sebbene l’arte fosse di casa, il primo vero contatto con essa avviene all’età di 14 anni, attraverso un amico del padre, il quale dopo aver decorato una tela con colla, sabbia e colori, gli dà fuoco chiamando l’opera “tramonto”. 

Foto di Marina Abramović a Palazzo Strozzi di Firenze nel 2018

Immagine presa da Wikipedia. Foto di Marina Abramović a Palazzo Strozzi di Firenze nel 2018

Studia all’Accademia di belle arti di Belgrado per poi diventare insegnante presso l’Accademia di Novi sad e si avvicina alla performance art.  Con il termine “performance”, “Rhythm 10” del 1973 è la sua prima performance: una specie di roulette russa in cui esplora la ritualità gestuale attraverso il gioco del coltello, in cui con l'oggetto si deve colpire lo spazio tra le dita in modo veloce e ripetuto. L’anno successivo è il turno “Rhythm 0”, allo Studio Morra di Napoli, dove si presenta con un tavolo pieno di oggetti di “piacere e dolore”, una delle prime performance in cui Marina rimane inerme per sei ore, le prime tre passate molto tranquillamente, l’artista non subisce nulla di pericoloso, ma verso la fine, lo spettacolo esplode e i suoi vestiti vengono tagliati con delle lamette, successivemente vengono usate sulla sua pelle. Il pubblico stesso, temendo cose ben più gravi, si divise in due schieramenti, quello di chi voleva proteggerla e chi invece voleva infierire, usando perfino la pistola che era stata posta sul tavolo. Fu anche la prima performance in cui metteva in pericolo la sua vita affrontando paure a cui non aveva mai pensato. “Rhythm 5” dello stesso anno, è l’atto finale di questa trilogia. Il numero cinque deriva dalla stella a cinque punte che incendia per buttargli dentro i capelli e le unghie che si era tagliata durante la performance, che finì con Marina all’interno delle fiamme, viva solo per intervento tempestivo dei soccorsi. Così ha commentato l’esperienza la stessa artista:


 "Ero molto arrabbiata perché avevo capito che c'è un limite fisico: quando perdi conoscenza non puoi essere presente; non puoi esibirti."

(Marina Abramović)


Marina Abramović durante la sua performance “Rhythm 0”  del 1974

Immagine presa da CIPM. Marina Abramović durante la sua performance “Rhythm 0” del 1974

Il 1975 si apre con due performance: la prima “Art must be beautiful” in cui l’artista si pettina i capelli per un'ora con una spazzola in metallo, recitando un mantra: "L'arte deve essere bella, l'artista deve essere bello" e arriva a sfregiarsi la faccia. La seconda è diventata un pilastro della performance art, il cui titolo è “Thomas Lips”, uno degli spettacoli più fisicamente difficile che la donna abbia mai affrontato: dopo aver mangiato un chilo di miele con un cucchiaio d’argento, aver bevuto un libro di vino bianco e aver rotto  il bicchiere, incide con una lametta una stella cinque punte sul proprio ventre, un immagine violenta e cruda, ma non finisce qui, collegandosi ai riti critiani di corica su una croce di ghiaccio mentre un getto di aria calda punta al ventre facendola sanguinare, porta ancora una volta i limiti del proprio corpo all’estremo, ma gli spettatori non subiscono impassibili, la tolgono di peso appena prima di un principio di congelamento. Fondamentale per l’artista è il dialogo che nasce con lo spettatore sconosciuto, che non riesce, il più delle volte, a passare oltre, impassibile.

Il 1976 è l’anno in cui la Abramović decide di purificarsi attraverso tre performance: la prima “Freeing the body” in cui danza al suono dei tamburi africani ininterrottamente per otto ore fino a cadere a terra stremata, la seconda “Freeing the memory” in cui libera la sua memoria stando seduta con la testa reclinata e iniziando a recitare tutte le parole che conosce e l’ultima “Freeing the voice”, in cui giace supina e con il volto rivolto al pubblico e libera la sua voce in un urlo che lei descrive così:


"Quando gridi in questo modo, senza interruzione, in un primo momento riconosci il suono della tua stessa voce, ma successivamente quando ti spingi ai tuoi stessi limiti la tua voce diventa un puro oggetto sonoro"

(Marina Abramović)


Marina Abramović durante la sua performance “Freeing the voice” del 1976

Immagine presa da Artwort. Marina Abramović durante la sua performance “Freeing the voice” del 1976

Questo stesso anno Marina si trasferisce ad Amsterdam dove incontra l’artista e fotografo tedesco Ulay, il cui vero nome è Frank Uwe Laysiepen, anche lui protagonista della performance art di quegli anni. Insieme iniziano una collaborazione artistica e una relazione sentimentale che li porterà a viaggiare in camper in tutta Europa. Una delle prime e più celebri performance della coppia è “Imponderabilia” tenuta alla Galleria d’arte moderna di Bologna. I due sono posizionati ai lati della stretta entrata, così che il pubblico per entrare nella galleria deve per forza sfiorare i loro corpi nudi. Le reazioni sono tantissime, addirittura alcuni hanno rinunciato alla mostra per evitare l’imbarazzo.

“Imponderabilia”  performance di Marina e Ulay alla Galleria d'arte moderna di Bologna del 1976

Immagine presa da Finestra sull'arte. “Imponderabilia” performance di Marina e Ulay alla Galleria d'arte moderna di Bologna del 1976

Il 1980 è l’anno della prima esibizione al MoMa di New York, “Rest energy” in cui Marina brandisce un arco e Ulay tende la corda, il dardo è al centro rivolto con la punta verso di lei. Dodici anni dopo l’inizio della loro relazione, nel 1988, i due artisti pongono fine alla loro storia nell’unico modo in cui sanno farlo, attraverso la performance “The wall walk in China”, una delle più famose, romantiche e conosciute delle vite di entrambi: percorrono a piedi la Grande muraglia cinese, partendo dai capi opposti per incontrarsi a metà strada, salutarsi e proseguire per la propria strada, con la propria vita.

Incontro tra Marina e Ulay durante la loro ultima performance "The wall walk in China” del 1988

Immagine presa da The Guardian. Incontro tra Marina e Ulay durante la loro ultima performance "The wall walk in China” del 1988

Il 1990 è l’anno di “Dragon head” in cui l’artista ha tre pitoni a digiuno che le corrono sul corpo. Nel 1997 vince il Leone d’ora alla Biennale di Venezia con “Balkan baroque” dove denuncia la guerra in Jugoslavia attraverso la performance in cui, seduta sopra una montagna di femori di bovino, li pulisce ossessivamente per sei ore al giorno per quattro giorni consecutivi. Lo stesso concetto di pace, è all’interno di un video in bianco e nero del 2001, in cui lei è immobile su un cavallo bianco con una bandiera sventolante anche’ssa bianca. Il titolo “The hero” è dedicato al padre, morto quello stesso anno e che ha combattuto contro i nazisti nella seconda guerra mondiale.

Marina Abramović durante la performance “Balkan baroque”  del 1997

Immagine presa da Arthive. Marina Abramović durante la performance “Balkan baroque”  del 1997

Un altra performance la vede protagonista al MoMa nel 2010 con “The artist is present” in cui seduta ad un tavolo fissa ogni spettatore che si siede di fronte a lei. Tra gli spettatori c’è anche Ulay, è momento più toccante di tutte le 736 ore di performance distribuite in tre mesi. I due si guardano profondamente, Marina si commuove e allunga le mani per intrecciarle con quelle di lui, mettendo fine agli anni di allontanamento e alle controversie legali dovute alla paternità delle loro opere.Il ruolo determinante della performance art, in particolare nell’arte di Marina, è data dallo spettatore che viene coinvolto nel progetto scenico, infatti diventano parte dell’azione all’interno dell'opera. 

Incontro tra Marina e Ulay dutantela performance “The artist is present” del 2010

Immagine presa da ArtsLife. Incontro tra Marina e Ulay dutantela performance “The artist is present” del 2010

Dopo aver lavorato con i limiti del suo corpo, l’ultima performance di Marina Abramovic è dedicata alla longevità “Marina Abramović longevity method”: una linea di cosmetica e di integratori studiati per mantenere sano sia il corpo che la pelle. La particolarità di questa linea sono gli ingredienti studiati con l’esperta di medicina olistica austriaca Nonna Brenner, che ha aiutato l’artista a riprendersi dopo aver contratto la malattia di Lyme, in cui vitamina C e acido ialuronico incontrano la fermentazione del pane e del vino bianco.


"Nonna ha deciso che devo vivere fino a 110 anni. Le donne artiste sono rivalutate solo dopo i cento, così forse a quel punto anch'io sarò presa sul serio"

(Marina Abramović)


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