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Letizia Destefanis

Guido Cavalcanti: la visione della donna-angelo nello Stilnovismo

Guido Cavalcanti nacque a Firenze attorno al 1258. La sua famiglia, di nobili origini e facente parte dei guelfi bianchi (sostenitori del papa, anche se da questi vogliono più autonomia e sono favorevoli alla signoria) e per questo esiliati. Solo sei anni dopo a Guido fu promessa Beatrice, figlia di Farinata degli Uberti, dalla quale avrà due figli. Tra le varie vicissitudini del poeta, c'è anche un pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Cavalcanti fu maestro e "amico" di Dante, sebbene politicamente molto distanti e insieme a Lapo Gianni, formarono il trio che diede vita allo Stilnovismo: famosi sono i sonetti che si scrivevano in risposta come "Rime, Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io" di Dante o "S'io fosse quelli che d'amor fu degno" dello stesso Cavalcanti. Guido muore, molto probabilmente di malaria, il 29 agosto del 1300, dopo essere tornato a Firenze finito l'esilio.

 "Sei poeti toscani illustri" di G. Vasari, 1544.  Da sinistra troviamo: Cristoforo Landino, Marsilio Ficino, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio e Dante che mostra la "Vita nova" a Guido Cavalcanti

Immagine presa da Wikipedia. "Sei poeti toscani illustri" di G. Vasari, 1544. Da sinistra troviamo: Cristoforo Landino, Marsilio Ficino, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio e Dante che mostra la "Vita nova" a Guido Cavalcanti


Chi è questa che ven, ch ogn’om la mira,

che fa tremar di chiaritate l’âre

e mena seco Amor, sì che parlare

null’omo pote, ma ciascun sospira?


O Deo, che sembra quando li occhi gira,

dical’Amor, ch’i’ nol savria contare:

cotanto d’umiltà donna mi pare,

ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira.

Non si poria contar la sua piagenza,

ch’a le’ s’inchin’ogni gentil vertute,

e la beltate per sua dea la mostra.


Non fu sì alta già la mente nostra

e non si pose ’n noi tanta salute,

che propiamente n’aviàn conoscenza


“Chi è questa che ven...”di Guido Cavalcanti

La metrica di questa lirica è tipica del sonetto in cui sono presenti due quartine con rime incrociate (ABBA-ABBA) e due terzine con rime invertite (CDE-EDC). Il sonetto appare da subito pienamente stilnovista, con uno stile dolce, piano e limpido tipico del “trobar leu” dei trovatori cortesi. Fondamentalmente la parafrasi letterale di questo componimento può essere questa:

“Chi è questa donna che avanza e che ogni uomo guarda, che riesce a far vibrare l'aria con la sua luce e che ha in sé l'Amore così che nessun uomo riesce a parlare in sua presenza, ma solo sospirare.

O Dio, cosa sembra quando gira lo sguardo, me lo dica l'Amore perché io non saprei spiegarlo e mi sembra talmente umile che ogni donna al suo confronto sembra altezzosa.

Non si può descrivere la sua bellezza, visto che anche le più nobili virtù si inchinano davanti a lei e con la sua bellezza può personificare una dea.

La nostra mente non è così elevata e nemmeno abbiamo in noi la perfezione divina per poter far la sua conoscenza.”

Il contesto in cui opera Cavalcanti è quello della Firenze di fine 1280 in cui si è già formato un gruppo di rimatori che prenderà, solo successivamente, grazie alla Divina Commedia di Dante, il nome di stilnovisti. In Italia la poesia non è più cantata, ma recitata e non è ancora diffusa la lettura privata, quindi i poeti ascoltano, scrivono e recitano per un pubblico formato dai nuovi aristocratici appartenenti a famiglie prestigiose, ma senza una nobiltà di sangue. Cavalcanti e la sua cerchia, riconoscono come più importante la nobiltà d'animo piuttosto che quella ereditaria, la quale si raggiunge solo attraverso dei comportamenti nobili e anche l'uso della poesia per esprimere il proprio amore alla donna amata. Cavalcanti in questo sonetto ha una concezione positiva dell'amore, diversa da quella che verrà dopo e che collegherà addirittura alla morte per quanto negativa.

Il poeta non ci parla dell'evento, né tanto meno degli aspetti fisici della donna in questione, anzi sembra quasi che, come sia avvenuto l'incontro, passi in secondo piano e sia decisamente poco rilevante. L'intento di Cavalcanti è quello di prende un luogo comune, un fatto quotidiano, come il mostrarsi in pubblico di una donna e renderlo un evento soprannaturale, senza però esplicitare la qualità angelica della donna, sottolineando solo come questa sia bella ed umile.


L'idea della donna-angelo (già elaborata da Guinizzelli) viene espressa già nella prima quartina: la donna fa vibrare l'aria con la sua luce, gli uomini al suo cospetto si ammutoliscono, aleggia quindi per tutto il sonetto una certa sacralità deducibile dagli effetti che la donna-angelo provoca negli uomini. Il fatto stesso che la donna sia una visione, un’apparizione angelica la rende infatti inavvicinabile, non vi è nessuna affettività e l'uomo può solo tacere al suo cospetto. Proprio nel primo verso è racchiuso un riferimento alla Bibbia (precisamente “Il cantico dei cantici”): “Chi è questa che ven” è un filo diretto con le suggestioni prodotte dalla donna-angelo descritte attraverso i riferimenti al sacro. Il tono religioso comunque rimane superficiale, infatti il poeta vuole celebrare il dio Amore: il sonetto per parlare di una tematica laica, quale l'amore, si aiuta attraverso le immagini e i luoghi comuni della Bibbia. L'angelo biblico diventa quindi una variante della dama cortese, al quale però non si addicono le virtù cortesi e che non può essere chiamata dea “e la beltate per sua dea la mostra.”. La sacralità è al servizio dell'amore laico ed ha la sua massima espressione al terzo verso quando vi è una vera e propria personificazione con il concetto di amore “e mena seco Amor, sì che parlare”.

"Lippina" di Filippo Lippi, 1465, Galleria degli Uffizi, Firenze

Immagine presa da Wikipedia. "Lippina" di Filippo Lippi, 1465, Galleria degli Uffizi, Firenze

Una novità che Cavalcanti esplicita nel suo sonetto è quello della collettività: il pronome “nostra” esprime la volontà di farsi portavoce dell'ideologia amorosa collettiva perché a reagire all'apparizione della donna non c'è solo lui, l'amante, ma sono tutti gli uomini presenti. Il poeta parla, non per sé stesso e per l'amata, ma per tutti gli uomini. I ruoli dell'amata e dell'amante sono solo la scusa per poter scrivere il testo, sulla base della sacralità della donna, della sua apparizione “che fa tremar di chiaritate l’âre” e lui, l'amante, ne è testimone come anche il resto dei presenti all'evento che assume caratteristiche quasi mistiche.

La novità della poesia stilnovista è palese in quanto l'amante non chiede nulla in cambio all'amata, se non di assistere all'apparizione, ed è molto diversa dalla concezione di amor cortese dove era fondamentale desiderare ed essere rifiutati.


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